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Pauli Arbarei - Museo della Donna

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1) Donna e modernità


Il processo di modernizzazione vissuto dalla donna di Paùli Arbarèi ha seguito un percorso identificabile, a quello vissuto dalle donne di altri paesi della Sardegna.


Il termine modernità racchiude simbolicamente un insieme di trasformazioni che hanno determinato importanti cambiamenti nel ruolo sociale, nella gestione delle attività domestiche, nel prendersi cura della propria famiglia e della propria persona.  


Progressivamente in Sardegna dagli Anni Sessanta, sia per il contesto storico sociale nazionale, sia per l’importante diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione, quali televisore e radio, si è avviato un processo di trasformazione culturale che ha scardinato e modificato il sistema socio-culturale tradizionale.


L’innovazione tecnologica e la diffusione del progresso scientifico messi a disposizione della popolazione, l’attivazione di determinati servizi, da quelli igienici a quelli di urbanizzazione, hanno imposto dei cambiamenti stravolgenti.


Un bene primario come l’acqua, grazie alla realizzazione della rete idrica, reso usufruibile all’interno dell’abitazione ha comportato la chiusura dei pozzi e delle fontane pubbliche per cui una delle fondamentali mansioni della donna, l’approvvigionamento quotidiano dell’acqua non ha più avuto ragione di esistere. Un’altra attività che ha visto cambiare totalmente modalità di gestione è il bucato. Non più nel ruscello ma a casa, inizialmente manualmente usando lavandino lavatoio fino ad arrivare alla lavatrice. Compaiono quindi i primi elettrodomestici, grazie all’allacciamento della corrente elettrica in tutte le abitazioni. È un tutto in pieno divenire, la casa non è più quella cellula produttiva dove si attuavano mille processi di trasformazione, da quello alimentare a quello tessile. La nuova società propone differenti modelli ai quali ormai è obbligatorio attenersi. Cambiano velocemente anche le fogge dei vestiti, che le sarte del paese riescono a realizzare grazie alla diffusione delle riviste di moda e di sartoria, e alla loro consolidata competenza.


Le donne che all’età di 11 – 12 anni avevano lasciato la famiglia per lavorare presso famiglie benestanti, per cui andarono a vivere anche in centri più grandi come Cagliari, avevano in qualche modo vissuto anticipatamente alcuni aspetti di questa modernità. Esperienze di particolareriguardo sono quelle delle donne che hanno varcato il mare, e che in città come Roma, hanno prestato servizio presso famiglie alto-borghesi, dove si sono trovate nella condizione di vivere un’emancipazione sociale, scaturita dall’opportunità di studiare e costruirsi un’altra professione. Si conferma quindi più diffusamente per la donna, grazie anche alla scolarizzazione, la possibilità diintraprendere altre attività lavorative, quindi professioni, che esulano dal contesto domestico, come l’infermiera, l’assistente d’asilo o l’impiegata.

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2) Intimità e moda


Nella struttura sociale di una comunità fortemente caratterizzata da un sistema tradizionale, è quasi immediato distinguere ciò che può essere definito intimo e moderno.


Essenzialmente intimo può essere considerato tutto quello che viene nascosto agli altri, intendendo per altri il non io o il non “noi famiglia”.


La moda è il flusso del tempo che propone le novità, le altre proposte, differenti dal modus vivendipopolarmente connotato.


L’intimità corporea ha seguito una sua moda, ovviamente legata all’evoluzione dell’abbigliamento tradizionale, consequenziale alle trasformazioni sociali. Un excursus storico-sociale sull’uso dellemutande, potrebbe essere un’esemplificazione di come moda ed intimità, siano state e sono fortemente correlate.


L’uso delle mutande lunghe, in entrambi i sessi, in Sardegna è già attestato nell’Ottocento. 


È presente ma non largamente diffuso. Rimane fino agli anni Cinquanta del Novecento relegato ai ceti sociali agiati o a determinate occasioni quando si indossava l’abbigliamento festivo.


Non mancano i racconti sulle signore che, essendo senza mutande, urinavano a gambe divaricate, in piedi sulle cunette delle strade, ancora in selciato e senza fogne; oppure sull’odore di urina che molte donne emanavano a causa degli indumenti bagnati da questa.


Se principalmente alle mutande si  una valenza igienica non è secondaria la valenza dell’estetica e quindi della moda. Non mancano infatti esempi di mutandoni da donna riccamente decorati con preziosi ricami. Una volta scomparso l’uso dell’abbigliamento tradizionale e quindi delle gonne lunghe, anche i mutandoni sono scomparsi per lasciare il posto alle mutande stile slip,che non venivano realizzate a mano ma acquistate. Anche se, per i primi modelli di slip, le donne si sono cimentate nel confezionamento a mano con la tela di cotone o di lino riciclando vecchi tessuti.


Contemporaneamente agli slip compare anche l’uso del reggiseno, la cui funzione precedentemente veniva eseguita dai corpetti dell’abbigliamento tradizionale o dai corsetti.


Il concetto di intimità nelle case di inizio Anni Sessanta, case in cui la promiscuità sessuale era idealmente ben demarcata ma difficilmente vivibile negli spazi reali, inizia a definirsi chiaramente con la realizzazione della stanza da bagno. 


Fino a quando non furono realizzate le fogne e le reti idriche, il bagno era uno spazio assente. Ci si lavava con il lavabo in camera da letto o nel loggiato; le funzioni fisiologiche venivano espletate nel cortile in un angolino delimitato sommariamente o nei vasi da notte, riposti sotto il letto.


Con la costruzione della stanza da bagno, una parte dell’intimità della persona è sicuramenterilegata in un ambiente ben definito e privato. Dal loggiato scompaiono quindi accessori come la pettiniera dove venivano collocati, specchi, pettini e spazzole per fare spazio alle innovazioni. Si diffonde l’uso del phon; i rasoi elettrici sostituiscono lamette e pennelli; gli asciugamani di lino cedono il posto a quelli di spugna di origine commerciale e non più realizzati dalla tessitura domestica che ormai viene abbandonata.


Sono i segni di un’evoluzione sociale in cui il senso della comunità cambia per dare ampio spazio al senso dell’io, dell’individualismo.

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3) Gestione della casa


Il lavoro domestico, nel quadro di una società di stampo tradizionale riconoscibile ancora in un arco temporale che è andato a modificarsi dagli Anni Sessanta, va inteso diversamente da ciò che attualmente significa. I lavori che si svolgevano all’interno delle mura domestiche, spesso erano il proseguimento di quelli che venivano svolti nei campi. La donna, sia che andasse o non andasse a lavorare in campagna, in casa attendeva a svariate attività legate anche all’agricoltura, perché questo era il settore che producevano i beni di prima necessità.


La gestione della casa era condizionata dalla posizione sociale della famiglia e dal numero dei componenti del nucleo familiare. Era un’attività molto complessa, che aveva lo scopo di provvedere al sostentamento della famiglia per cui ogni risorsa, compreso il tempo, andava sfruttata al massimo, nel miglior modo possibile e nel minor tempo possibile. Tale necessità ha fatto  che la donna sviluppasse la capacità di svolgere alcune di queste mansioni contemporaneamente.


Senza entrare nel merito della classe sociale, che poteva condizionare la quantità e la qualità della singola mansione, le donne, chi per conto proprio o attraverso il contributo dei servienti, quotidianamente accudivano a:


- giornalmente:



  • figli piccoli;

  • approvvigionamento idrico con le brocche in mano o sul fianco

  • quotidianamente si recavano alla fonte o al pozzo per attingere l’acqua necessaria all’alimentazione e alla pulizia personale;

  • preparazione dei pasti;

  • rigovernatura delle stoviglie;

  • pulizia e alimentazione degli animali da cortile, come il maiale, le galline e i conigli;

  • ricamo;

  • tessitura;



 


- settimanalmente:



  • bucato, con gli strumenti necessari (bacinelle e sa tella, il lavatoio di legno) si raggiungeva il ruscello dove i panni potevano essere lavati;

  • preparazione del pane e ciò comportava un impegno quotidiano per la preparazione della farina;



- annualmente:



  • raccolta di olive e mandorle e conservazione;

  • tinteggiatura delle pareti della casa;

  • rifacimento dei materassi;

  • macellazione del maiale.



 

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4) I figli e la famiglia


La nascita di un bambino comportava un cambiamento nelle mansioni di vita quotidiana, nella gestione degli spazi e dei tempi che coinvolgeva fondamentalmente la mamma e le altre eventuali figlie femmine. Già nel periodo della gravidanza la mamma, a mano, preparava il corredino del neonato: camiciole di tela, magliettine di lana, coprifasce, le fasce di mollettone, lenzuolini e il sacco.


I primi mesi di vita del bambino, dipendevano esclusivamente dall’allattamento al seno materno. Sempre in questo periodo il neonato veniva tenuto nella culla “su bratzolu” sistemata nella camera dei genitori.


L’abbigliamento del neonato era caratterizzato dalle fasce di tela, con cui veniva avvolto dai piedi alla schiena, fino all’età circa di sette mesi.


L’accudire un figlio piccolo non significava attenuare i ritmi del lavoro, per cui spesso i figli, anche se piccoli, venivano portati anche in campagna. In casa si procedeva normalmente, ugualmente badando contemporaneamente ai figli e alle faccende.


I figli più grandi contribuivano all’organizzazione della vita domestica, andando a raccogliere la legna, portare l’acqua in casa, fare le commissioni e svolgere anche alcuni lavori agricoli.


Le figlie femmine, inoltre, all’età di circa dieci anni iniziavano anche a lavorare nelle case delle famiglie benestanti. Alcune si specializzano in particolari attività come il bucato, il ricamo, il pane, il cucito.


In ogni modo, ciascun componente del nucleo familiare, poteva contribuire al sostegno della famiglia. Nel tempo libero i bambini uscivano di casa per giocare, oppure frequentavano la chiesa. Iniziarono a frequentare la scuola quasi regolarmente dopo la Seconda Guerra.


Durante la giornata non mancavano i momenti in cui anche il gioco e la convivialità trovavano il loro inserimento. I racconti e gli indovinelli nelle lunghe sere estive, incantavano e mettevano a confronto giovani e anziani di un intero vicinato. Le famiglie vicine erano il naturale allargamento del nucleo familiare proprio. Attraverso questo legame, sviluppatosi entro termini di spazio, si accudivano gli uni con gli altri.


 

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5) Magia, racconti e immaginario


La magia, come tutto ciò che si utilizzava per poter sopravvivere al meglio, contribuiva, nell'immaginario collettivo, conoscendola e sapendola gestire, ad assicurare una migliore qualità di vita o per lo meno ad evitare fatti avversi. 


Prima di tutto, andava tutelata la salute che era notevolmente a rischio sia per le assenti condizioni igieniche sia per la mancanza di cure, e sia per i rischi che si contraevano lavorando in campagna tutto il giorno. 


I bambini erano i più soggetti ad ammalarsi facilmente, e spesso senza alcuna terapia, finivano la loro breve vita andando ad incrementare il fenomeno di alta mortalità infantile, attenuatosi dopo gli Anni Sessanta.


Una delle terapie magiche alle quali si ricorreva per la maggiore, che ancora oggi è praticata, è la medicina dell'occhio. Quando un bambino accusava un malessere inspiegabile, veniva portato immediatamente dalla donna che conosceva e attuava la terapia magica. 


La donna prima di tutto verificava, attraverso la formazione di bollicine, che comparivano vicine ai chicchi di grano gettati in un bicchiere contenete dell'acqua benedetta, se l'interessato fosse stato colpito dal malocchio. Il malocchio è la conseguenza di un'influenza negativa, causata da uno sguardo invidioso o eccessivamente pieno di ammirazione. Particolari preghiere, “brèbus” recitatedalla terapeuta provvedevano alla guarigione. Conoscendone l'origine, si poteva porre rimedio cautelativo indossando degli amuleti che potevano essere di fattura semplice, come un nastrino verde o una foglia di prezzemolo sistemato tra le mutande.


Il bisogno di protezione era immenso e questo bisogno andava soddisfatto anche attraverso la fede spesso commista anche alla magia.


Nelle case, sugli stipiti delle porte o alle pareti venivano appesi oggetti benedetti come le palme sempre accoppiate con l'ulivo, anch'esso benedetto la Domenica delle Palme, le acquasantiere o i reliquari che avevano la funzionane di allontanare il male dalla casa e dagli abitanti.


Le palme venivano usate anche per proteggere le campagne, in particolare dagli incendi. Ogni anno per la Domenica delle Palme si rinnovava la tradizione di bruciare quelle vecchie e sostituirle con quelle nuove.


Le mamme invece in occasioni speciali, partenze, malattie, segnavano una croce sulla fronte dei figli con l'acqua benedetta depositata nell'acquasantiera di casa.


L'acqua benedetta proveniva dalla chiesa parrocchiale.


Attraverso le festività con le rispettive ritualità, come le processioni, tutta la comunità di Pauli Arbarei, abitato ed abitanti, invocava la protezione dei santi festeggiati. Alcuni di questi, per cui si aveva e si ha ancora oggi una profonda devozione, sono Sant’Agostino e la Madonna d'Itria. Sul simulacro della Madonna d'Itria, esiste una leggenda secondo la quale, gli abitanti di Pauli Arbarei e quelli di Villamàr se lo sono “giocato a carte”. La statua fu vinta dagli abitanti di Villamar, per cui questo paese resta il luogo di culto dove ufficialmente si svolgono i festeggiamenti, e dove gli abitanti di Pauli si recano in pellegrinaggio per parteciparvi.


Un altro santo invocato per specifiche protezioni era ed è sant'Isidoro, protettore dei lavoratori e dei lavori nei campi. Per la sua festività, nel mese di maggio, è ancora in uso sfilare in processione con gli animali d'allevamento e i mezzi agricoli adornati.

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6) Musica, ballo e svago


Una comunità, la cui esistenza si basa sui lavori agricoli, scanditi ciclicamente all’interno dell’annata agraria, ritaglia i momenti di “svago“ in equilibrio con questo sistema sociale e produttivo.


Per i paesi di tradizione agricola, come Pauli Arbarei, l’estate, dopo il periodo intenso del raccolto, era un momento di relativo riposo, per cui dalla seconda metà di agosto ricorrevano diverse festività.  Queste erano le festività in cui era possibile avere alcuni giorni continui di svago. Una di queste occasioni era la festa di Sant’ Agostino che, attraverso i festeggiamenti civili e religiosi, portava un cambiamento alla vita quotidiana. Oltre agli impegni religiosi che richiedevano un maggior tempo da trascorrere in chiesa, la zona circostante la chiesetta, ospitava una fiera brulicante di persone provenienti da tutto il circondario. Gli abitanti vi recavano per fare gli acquistidi utensili, arnesi e alimenti non facilmente reperibili durante l’anno, perché prodotti nelle altre località di Sardegna. La fiera era un’occasione di grandi scambi economici e sociali a carattere regionale. Per le donne era l’opportunità di acquistare pezzi del corredo (come tessuti, ceramiche, utensili di legno). Al piacere di fare acquisti si aggiungevano anche quelli di carattere culinario, in quanto si mangiava qualcosa di alternativo come i pesci arrosto, il torrone, la carapìgna. Inoltre,c’erano i figuranti legati al mondo del circo o dei giostrai.


 


Nel contesto festivo di tutto l’anno, non mancava mai il momento dedicato al ballo sardo, sicuramente era il divertimento più atteso e vissuto intensamente.


Il ballo era un momento della comunità molto importante, non era una mera forma di svago ma anche di consolidamento di legami interpersonali, soprattutto tra i diversi sessi. Gli spazi dove si svolgevano erano sia pubblici che privati; quindi, in piazza o in abitazioni private che disponevano di ampi cortili. La pratica del ballo richiedeva la presenza fissa di un suonatore di fisarmonica, che accompagnava la comunità anche quando si spostavano in altre località. Era consuetudine durante il pellegrinaggio fare delle soste e ballare.


Il carnevale era un altro momento del ciclo festivo dell’anno, immancabile ed imperdibile, nel quale oltre al ballo c’è da aggiungere il divertimento del mascherarsi e di uscire per le strade del paese.


Anche la passeggiata per le vie centrali del paese, è da considerare uno dei passatempi prediletti dei giovani, in maggioranza femmine, di oggi e del passato.


Il modo di relazionarsi e di vivere lo svago ha logicamente subito i suoi cambiamenti, avvenuti nei mitici Anni Sessanta: balli “civili” e altri stili di ballo si sono affiancati a quelli sardi; è comparso il mangia dischi, per cui la figura del suonatore è stata meno ricercata. 


Inoltre, l’emigrazione di tanti giovani, coloro che organizzavano il divertimento, ha causato lo sfiorire dei festeggiamenti.


L’invenzione della televisione ha introdotto nuovi modi di stare insieme e trascorrere il tempo libero. I primi proprietari lo misero a disposizione della comunità nella propria abitazione, affinché chiunque potesse godere di questo bene. E così erano momenti di aggregazione sociale gli appuntamenti attesi per guardare i programmi televisivi come il festival canoro di San Remo, Canzonissima, e così via.


Nel momento in cui il mass media per eccellenza è entrato in ogni casa, le persone si sono isolatenelle proprie abitazioni per seguire i programmi televisivi, perdendo un altro tipo di svago, che era quello di recarsi dai vicini di casa per scambiare le solite chiacchiere.

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7) Tavola e cibo


Le produzioni gastronomiche e l’arte nella preparazione del cibo, hanno seguito la disponibilità di risorse animali e vegetali proprie del luogo, ma sono anche il risultato  di complesse combinazioni socio-culturali che si sono sviluppate e tramandate.


Le attività connesse con l’alimentazione, rivolte a soddisfare il bisogno di nutrirsi, quindi raccogliere e coltivare, cacciare e allevare, conservare, preparare e consumare, rientrano fondamentalmente nel settore agricolo di produzione cerealicola.


L’alimento fondamentale era il grano e quanto la sua produzione poteva offrire.


Il grano si macinava per ricavare le diverse farine, dalle quali si ottenevano non solo il pane, ma anche le varie paste quali ravioli, gnocchetti e frégua. Lo stesso pane, nella cultura dove niente si butta, tanto meno il cibo, una volta indurito andava riciclato attraverso l’elaborazione di particolari pietanze come is zuppas (isz sùppasa). Gli avanzi di pane duro venivano cotti nell’acqua, come la pasta, e poi condito con sugo di pomodoro e formaggio.


La carne si mangiava raramente, una volta alla settimana, e in genere si trattava di animali allevati in cortile come la gallina e il coniglio. La carne di maiale invece si consumava nel periodo della macellazione, quindi a novembre e a dicembre. 


Anche gli insaccati, derivati dal maiale, avevano un limitato periodo di conservazione legato alla durata della stagione invernale. Il consumo della carne di maiale poteva anche prolungarsi grazie sa mandada”, al dono di carne che si riceveva da parenti e da vicini di casa che a turno macellavano il maiale, consentendo in questo modo di allungare il periodo di consumo della carne.


Un tipico modo di cucinare la polpa di maiale era di preparala "imbinàda, cioè, marinata nel vino o nell’aceto.


Una parte fondamentale nella piramide alimentare era costituita dal consumo dei legumi quali ceci e lenticchie, ai quali andavano ad aggiungersi gli ortaggi come cipolle, patate e pomodori, tutti coltivati nell’orto di famiglia.


Il condimento era o l’olio d’oliva o lo strutto.


Il latte, principalmente quello di pecora, era soprattutto l’alimento dei bambini e della colazione, e veniva acquistato direttamente dal pastore. Il latte si integrava con il caffè comprato in negozio, tostato e macinato in casa.


Il momento del principale pasto della giornata dipendeva dal lavoro, in quanto chi lavorava in campagna non rientrava a casa per il pranzo, per il quale doveva accontentarsi di pane, cipolle, formaggio e olive. Per il pranzo della domenica, chi poteva permetterselo, cucinava la carne, in genere di gallina, preparata in brodo.


L’angolo di cottura della casa era realizzato con i fornelli a carbone, per cui, fino a quando non si è passati al gas, per cucinare si usavano le pentole di terracotta.


La preparazione dei dolci era strettamente legata al ciclo della vita e a quello festivo: battesimi e matrimoni privilegiavano i dolci di mandorla, come il gattò; le festività dell’anno proponevano dolci legati alla produzione della stagione, come della ricotta o del formaggio fresco per le pàrdule, a Pasqua.


Nelle occasioni festive, come il matrimonio, il pane, l’alimento base, cambiava aspetto. Assumeva forme e caratteristiche diverse attraverso le lavorazioni artistiche, eseguite dalle mani femminili con l’ausilio di forbicine e di coltellini.

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8) Pane


Nei campi, di una terra che per lunghissimo tempo ha prodotto grano in grandissime quantità,incomincia la storia del pane. Un ciclo lavorativo annuale che coinvolgeva donne, uomini e anche bambini.


Dopo le piogge autunnali si arava la terra che veniva seminata verso novembre.


Tra l’inverno e la primavera venivano estirpate la gramigna e le altre erbe infestanti.


Verso la metà di giugno iniziava la raccolta delle spighe, la mietitura. Queste, raccolte e disposte a fasci, venivano collocate nell’aia per la trebbiatura. Successivamente il grano, disposto in un mucchio a forma di piramide, veniva ventilato.  Le persone non proprietarie di terreni, ma che avevano contribuito alla mietitura, come spigolatrice o massaio, guadagnavano la quantità di grano necessaria alla produzione del pane almeno per il fabbisogno annuale della propria famiglia.


Il grano si conservava nel solaio bene disteso.


Una volta alla settimana si saliva sul solaio e si prendeva la quantità di grano necessaria alla produzione del pane per la settimana. Veniva lavato e messo ad asciugare, poi setacciato per essere pulito da varie impurità come pietruzze, polvere e parassiti.


Ora il grano era pronto per essere macinato. Chi possedeva la mola asinara provvedeva alla macinazione in casa, le altre famiglie invece si servivano del mulino di Lunamatròna. Le donne, ma anche i bambini, si caricavano sulla testa i sacchi contenenti il grano e percorrendo la strada a piedi, tornavano con la farina.


Prima di essere utilizzata doveva essere sottoposta a diverse setacciature.


Nella cucina o nei loggiati, dentro il grande canestro a fondo piatto su canisteddu, poggiato sul pavimento o su bassi ripiani, le donne collocavano su sedazzadori che serviva come piano di lavoro dei setacci. I movimenti e gli sbattimenti producevano suoni dai ritmi costanti. Per misurare, contenere, trasportare, poggiare, proteggere, erano indispensabili le còrbule di varie grandezze, mestoli di legno tùrras, stuoie e teli bianchi.


La prima setacciatura aveva la funzione di separare la crusca dalla farina. La farina veniva ulteriormente setacciata per separare la semola fine dalla semola grossa. Quest’ultima si metteva da parte per preparare sa fregua, pastina da brodo.


Con la semola fine si procedeva alla produzione del pane. L’impasto, ottenuto con un lungo processo di manipolazione di farina, lievito madre e sale entrambi miscelati con acqua, veniva messo a lievitare in una cassetta di legno.


Durante la lievitazione, era seguita con grande cura la preparazione del forno dove, già verso le due o le tre del mattino, veniva acceso il fuoco utilizzando la paglia delle fave.


L’impasto veniva poi ripreso portandolo alla conclusione con la realizzazione delle varie forme, in particolare non poteva mancare su civraxiu. Si realizzavano svariate forme e tipologie di pane cherichiedevano una maestria artistica attraverso l’uso di particolari strumenti d’incisione per la pasta.


Il forno, raggiunta la temperatura, doveva essere ripulito dalle bracci che venivano portate fuori dal forno con il levabracci, e utilizzate per cuocere patate e cipolle.


Il pane, con le lunghe pale, era collocato nel forno. Per rendere lucide le croste, questi venivano messi al forno una seconda volta dopo essere stati bagnati con l’acqua salata.


Il pane tolto dal forno trovava spazio nei canestri foderati di tele di lino o cotone bianco, e poi coperto da tessuti di lana, così si conservava per una settimana.


 

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9) Lavoro nei campi


Il lavoro agricolo nei campi per le donne di Pauli Arbarei, era particolarmente diffuso nell’arco dell’intera annata agraria e nei diversi tipi di colture.


Le principali erano costituite dal grano, dalle leguminose e dalla barbabietola.


Questa era la coltivazione che impegnava un gran numero di donne, in quanto il lavoro prevalentemente manuale, si avvaleva di semplici arnesi (zappe di varie forge) utilizzabili dalle forze femminili.


Questa forte realtà agricola della produzione di barbabietola, era dovuta alla presenza dellozuccherificio di Villasòr, infatti chiusa l’industria alimentare, la barbabietola non è più stata coltivata.


In autunno, quando la terra era pronta per l’aratura e dove l’aratro non era accessibile, la donna adoperava la zappa per dissodare e preparare i terreni alla semina. Contemporaneamente a casa, rientrate dalla campagna, preparavano e selezionavano le diverse sementi (grano, lenticchie, ceci, fave) che da ottobre fino a dicembre venivano seminate.


Tutto l’inverno era dedicato ai lavori di zappatura e semina.


Con l’inizio della primavera si cominciava estirpando le erbacce.


L’estate si caratterizzava come la stagione del raccolto: prima delle leguminose e poi del grano che a fine luglio si mieteva, si trebbiava e si spagliava.


Nella fase della mietitura, spicca il ruolo della spigolatrice. Una donna che veniva ingaggiata dal mietitore con il compito di raccogliere le spighe e di assistere il mietitore fornendo l’acqua da bere. Le spigolatrici, a differenza degli uomini non dormivano nell’aia, ma vi ritornavano all’alba.


La pausa pranzo, si svolgeva all’ombra degli alberi o sotto dei teli e, consisteva di pane e cipolle.


Parte delle spighe da loro raccolte costituiva il compenso.


In questo circuito vanno inserite anche la cura dell’orto, la vendemmia e la raccolta delle olive, di cui tutte le fasi erano curate in prevalenza dalla figura femminile.


Le donne che lavoravano nei campi, in genere, lo facevano per necessità e non tutte le mogli dei proprietari collaboravano, alcune attendevano solo ai lavori domestici.  


Uscivano all’alba e rientravano al tramonto, e quando i figli non potevano essere accuditi da altre persone (suocere o mamme), si portavano nei campi.


 

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10) Antichi mestieri


Fino alla fine degli anni Sessanta una qualsiasi piccola comunità della Sardegna, come Pauli Arbarei, si autogestiva socialmente ed economicamente. Grazie all’apporto di diverse abilità professionali, era possibile trovare quanto serviva allo svolgimento del proprio lavoro e al sostentamento della vita quotidiana.


Accanto ai mestieri riconosciuti come tradizionali, rappresentati dalle figure artigianali del fabbro, del falegname, del calzolaio, del barbiere, del muratore e del sarto o sarta, ne esistevano altri che curavano sapientemente nei dettagli alcuni settori di primaria importanza come quello dell’agricoltura. 


Ne costituisce testimonianza la figura del potatore che con semplici arnesi, materiali e tecnica, era ricercato da tutti i proprietari per migliorare la qualità di vigneti, olivi e di altre piante da frutto.


Le donne con le loro sapienti mani e un’efficiente strategia organizzativa, accudivano a svariate attività, indispensabili al sostegno familiare, occupandosi della produzione del pane, della tessitura, del rammendo e tanto altro.


Anche la manutenzione della casa richiedeva figure specifiche, come il ridipingere le pareti con la calce e il rifacimento dei materassi. Questi lavori erano svolti annualmente e in genere avvalendosi di una donna specializzata in questa attività.


Piccole professioni specializzate che affiancavano le maestrie riconosciute tali per l’ampiezza della diffusione del loro lavoro. Il fabbro forgiava attrezzi agricoli, serrature, ruote; il falegnamerealizzava i vari tipi di legno secondo le funzioni degli oggetti quali porte, finestre, mobilia.  


Il calzolaio che con una serie di minuscoli attrezzi, tagliava e cuciva il cuoio per la realizzazione soprattutto di scarponi chiodati, cinture e zaini.


Il barbiere svolgeva una duplice funzione, oltre a radere barbe e a tagliare i capelli agli uomini, estraeva i denti ai pazienti che lo richiedevano. Accanto a questi artigiani operavano figure maestre nelle riparazioni, come il saldatore delle ceramiche, o su maistru ‘e carru specializzato nella costruzione di carri e aratri.  Anche se si sta parlando di una società, dove il baratto o lo scambio di lavoro era il sistema di pagamento predominate, erano comunque presenti alcune attività commerciali, che vendevano vari alimenti non prodotti in loco, come il caffè, lo zucchero, il sale, oppure ciò che non si riusciva a produrre da  come la pasta secca, la conserva, lo strutto e anche il pane.


Ha mantenuto una sua costante attività, anche se modificata dall’evoluzione dei tempi, la professione della sarta. Definita come una “scuola locale tenuta dalla sarta maestra, la professione è stata portata avanti dalle allieve e ciò ha permesso, ancora oggi, di trovare donne dedite a questo mestiere.


Le mani delle sarte, attraverso il taglio e il cucito delle stoffe, hanno realizzato su misura abiti che raccontano con le loro varie forge, gli stili di vita dettati dalle trasformazioni culturali, sociali e non ultime economiche di Pauli Arbarei.


Tutte queste maestranze si sono avvalse dell’apporto innovativo della tecnologia meccanizzando il lavoro, ma ciò non è servito per mantenerle tutte produttive. Il fenomeno dell’emigrazione, l’abbandono dell’agricoltura e la concorrenza della grande produzione ha posto fine alla vitalità di queste attività.

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